La guerra dei dieci anni

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La guerra dei dieci anni
L'incredibile e affascinante storia della decennale guerra fra Como e Milano

 

L'estate del 1118 era sul finire, quando i Milanesi mandarono a Como un araldo ad intimare la guerra, perché si sapesse la loro deliberazione e si avesse tempo di apprestar le difese. Tanta virtù fra tanta ferocia albergava in quegli uomini del medio evo, che se adesso l'assaltare l'inimico sprovvisto si stima atto prudente, allora vile e biasimevole si riputava.

Iniziò così la Guerra dei Dieci anni, quando le truppe milanesi, riunitesi intorno al loro carroccio, si presentarono alle porte di Como. 
Il primo degli assedi milanesi si rivelò debole e la sconfitta netta. Oltre mille milanesi rimasero esanimi fra le vie comasche. 

La sconfitta crebbe l'ira ai nemici. Si conosceva per prova che i Comaschi avevano disonorata la fama delle armi dei Milanesi, distruttone il fiore dell'esercito, e mostrato in qual maniera si vince, se alla patria più che alla vita si porta amore.

Nel contempo gli abitanti dell’Isola Comacina, fino a quel momento pacificamente soggetti a Como, iniziarono a premere per una maggiore indipendenza, assaporando l’idea di una Como in disfatta. Il sogno di una repubblica autonoma era più viva che mai.
Alcuni di loro, ritrovandosi a Como per faccende varie e sentendosi additati come Amici dei Milanesi, avevano solennemente protestato che piuttosto egli avrebbero i propri figli venduti, e scelto di vivere di legumi, che contaminarsi col tradimento.

Fatto sta, avendo poi ricevuto garanzie che Milano non avrebbe cessato battaglia fino alla completa disfatta Comasca, sposarono la causa milanese, convincendo anche le potenti terre lacuali di Bellagio, Menaggio e Gravedona. I Milanesi accolsero con gioia i ribelli, fornendo loro armi, vettovaglie, uomini e attrezzi per la costruzione delle navi.
Il Cumano, poeta anonimo del XII secolo, deplorò: per tua causa perde, o Comacina, l'onor suo il nostro vescovado, già sì ricco e sì cospicuo. Distruggi tu la nobile città comasca, e fai ogni sforzo perché cessi la sua chiesa. Tu tradisci gli amici, come Giuda tradì il maestro. 

Tutti i paesi lacuali scelsero di combattere a fianco di Milano, probabilmente esausti della pressione fiscale comasca; solo la fascia di comuni che si estende da Torno ad Argegno rimase fedele a Como, e così fu scritto dagli storici comaschi: le forze erano disuguali, ma i Comaschi non a spanne di territorio, sibbene dalla virtù dell'animo l'esito misuravano della guerra.

Sette navi di Isola comacina salparono verso Como, fecero sosta a Laglio e sbarcarono parte degli uomini. Quindi le navi ripartirono per Como e i soldati procedettero via terra, scendendo a piedi lungo la sponda occidentale. L’idea era di condurre un attacco su due fronti.
Scrissero i comaschi: le nemiche navi guadagnato il promontorio di Torno, vogavano gagliardamente, e la ciurma andava lieta segnando a dito i compagni, che per istretti sentieri si difilavano verso Como sulla sponda occidentale.

Durante la navigazione i due gruppi si perdettero di vista, fino all’arrivo nei pressi di Como. Dalle navi i comacinati videro le truppe di terra e, pensando che fossero i loro uomini sbarcati a Laglio, approdarono  vicino alla foce del Breggia per ricongiungersi a loro. Erano invece i cavalieri comaschi, informati dell’attacco imminente, che tesero l’imboscata: attaccarono i comacinati con tanto vigore e li costrinsero a serrarsi in sul lido nel massimo disordine.

Nella fuga verso le navi parecchi comacinati rimasero uccisi. Molti si gettarono nel lago, a nuoto, nell’estremo tentativo di fuggire all’ira comasca. I pochi che riuscirono ad imbarcarsi batterono in ritirata. Milano e i suoi alleati, ancora una volta, furono umiliati.
I milanesi reagirono alla sconfitta muovendosi politicamente per costruire una solida alleanza.

Spedirono ambasciatori alle convicine e lontane città domandando aiuto e lo ottennero da Cremona, Pavia, Brescia, Bergamo, Asti e Vercelli; e da Verona, Bologna, Ferrara, Mantova, Guastalla. […] Questa lega dei popoli lombardi contro di Como, che non avevali offesi, che non poteva, essendo piccolo stato, destare in essi gelosia di sorta alcuna, e che s'ingegnava di proteggere non solo la propria indipendenza, ma le stesse abitazioni, che altri avea giurato di radere […]  I nostri per resistere a tanto sforzo di guerra, si restrinsero intorno alla città, ed il primo loro pensiero fu di por mano ad innalzare muraglie, afforzarle dove erano deboli, scavare le fosse, apparecchiarsi d'uomini e d'armi, provvedersi di vettovaglie. Penoso e lungo lavoro, che la carità del loco natio rendeva facile e desiderato. 

Per ben due volte, la flotta navale della lega si presentò davanti a Como, ma gli assedi vennero sempre respinti. Si limitarono, quindi, ad assediare e saccheggiare alcuni borghi vicini, come Vico e Colognola.

La numerosa oste dei nemici si gettò sulle terricciuole convicine a Como, le diede alle fiamme e vi operò grandissimo guasto. Si appiccò qualche zuffa, ma di lieve momento, finché decaduti ancora i Milanesi dalla speranza di poterci sforzare, diedero volta col Carroccio, ed inviarono il cartello di sfida pel futuro mese di maggio.

I comaschi non si persero d’animo, non avrebbero passivamente atteso una nuova ondata di assedi e, mossi dall’ardore del loro vescovo Guido, decisero di passare all’attacco. Approfittando della momentanea assenza delle truppe della Lega, si prepararono ad assaltare e piegare i paesi lariani ribelli, che rimanevano sul lago senza la protezione dell’armata alleata.

La città, così liberata dai più potenti nemici, propose con savio consiglio di voltarsi con tutte le forze contro le rubellate terre del lago, e ricondurle all'antica divozione. 

Furono allestite dodici navi, nominando ognuna con il nome di un apostolo. Già allora era abitudine dare nome alle navi. In questa decennale guerra furono celebri, fra le altre, il Grifo, il Lupo, l'Alberga, la Cristina e il Ratto. 
Nel mezzo delle più grosse sorgeva una torretta lignea, sicura postazione di combattimento per gli arcieri, sia in attacco che nella difesa. Sulla poppa sventolava la bandiera del comunale, per Como una croce bianca in campo rosso, e sulla prua un grande puntale di ferro saliva o scendeva secondo l’utilizzo: tornava utile speronare le navi o per agganciarle. Così narrano gli storici comaschi il giorno del varo: floridissima gioventù vi ascese, i cittadini affollati nella circostante spiaggia applaudirono, le bande musicali fecero echeggiar l'aria dei concerti di timpani e di trombe, e le campane suonarono a doppio. 
In quella il vescovo Guido ornato delle pastorali insegne ed accompagnato dal clero, si avanzò nel mezzo, benedisse pontificalmente l'armata, che poi lieta salpò seco portando la speranza di trionfare in una giustissima causa. 


La flotta delle dodici navi partì. Il primo sbarco fu a Tremezzo, che venne saccheggiato e dato alle fiamme. Le navi tornarono a Como trainando una bella nave nemica, caricata di armi predate. 
Arrivati nei pressi dell’Isola Comacina vi trovarono alcune navi isolane pronte al conflitto. Una di esse, molto veloce, puntò la flotta comasca investendo in pieno una nave. La comasca resistette all’urto, mentre quella isolana, sfasciandosi completamente, colò a picco. Giuse in soccorso degli isolani anche una nave Bellagina, ma anche questa venne sconfitta, requisita e trainata a Como. 
Nei giorni successivi Como assalirà Lezzeno, L’isola, Campo, Bellagio e Lierna, sempre confiscando le navi nemiche e facendo ricchi bottini. 
Oramai i comaschi contavano una flotta di cento navi. 

Rinfrescatisi di nuovi aiuti ed accresciuti fino a cento i legni da guerra, cosa stupenda per un piccolo stato e che rende immagine di Venezia, quando gittava in mare le mille navi armate […]

Un successivo assedio comasco fu teatro di una spettacolare battaglia navale. Era in corso il saccheggio di Lezzeno, quando gli isolani inviarono delle navi a soccorso del paese amico.
I comaschi, vedendo arrivare le navi nemiche, simularono la fuga, lasciando indietro appositamente due piccole navi, con il preciso scopo di insultare e provocare gli isolani. La flotta comasca, nel frattempo, si nascose in un’insenatura. Gli isolani continuarono ad inseguire le due navette, ma una volta superata l’insenatura, si ritrovarono circondati e senza scampo. 
Una sola nave isolana riuscì a fuggire, dirigendosi a Varenna, alleata dell’Isola. Fu inseguita dalle navi comasche Alberga e Cristina, che una volta arrivate a riva furono accolte dall’intero paese con una fittissima sassaiola. Dovettero ricorrere alla testuggine romana e guadagnare velocemente il largo. 
Sul Lario seguirà un periodo di relativa calma, nel 1123 il teatro di guerra si trasferì sul lago di Lugano, dove i milanesi subirono ancora pesanti sconfitte e persero navi. 
Si ritirarono a Porlezza e qui, con solita astuzia diplomatica, riuscirono a corrompere il Comasco Arduino degli Avvocati, custode dell’arsenale comasco sul Ceresio, affinché consegnasse tutte le navi ai milanesi.
Avendo saputo del tradimento e non avendo tempo per costruire altre imbarcazioni, i comaschi caricarono le navi Alberga e Cristina su dei grandi carri assemblati per l’occorrenza e, con l’ausilio di numerosi buoi, le trasportarono sul lago di Lugano. Uno spettacolare un blitz notturno colse di sorpresa il traditore e l’intera flotta fu recuperata. Conoscendo l’ardore comasco, non immaginiamo il trattamento riservato al buon Arduino.

Queste segnalate vittorie sul lago di Lugano furono presto funestate da un tradimento. Arduino degli Avvocati […]  vinto dall'oro, consegnò la rocca di Melano, di cui era custode, ed il naviglio ai nemici […] 
Udita appena la infamia dell'Arduino, deliberammo di riconquistare col valore e colla celerità ciò, che per l'altrui mala fede si era perduto. Congegnate insieme più carra, vi si sovrapposero le due migliori navi chiamate Cristina e Alberga, e di notte per le dirupate strade […] si trassero da Como a Melano e lanciata nell'acqua la piccola flotta, si piombò repentinamente sulle navi dei Milanesi, che si stavano a mala guardia nel porto di La vena; fu ritolta la preda, ed il lago di Lugano tornò all'antica divozione. 

Il 1124 vide la Pieve di Gravedona rompere l’alleanza con Milano e tornare sotto la protezione comasca. 

Gravedona rinsavita si ricongiunse a Como; ma gli altri ribelli fierissimi sempre più nel proposito loro, provocarono di nuovo le armi dei Comaschi.

In questo momento di apparente superiorità bellica, Como decide di offrir pace ai ribelli, mandando gli ambasciatori all’isola. 

La venuta nostra in questo paese dopo il sangue sparso in una guerra crudele rende […] attentissimi gli animi […].  È tempo di governarci con generosità di consiglio, e poste in dimenticanza le offese, ritornar col pensiero a quei beatissimi tempi, quando per la pace fiorivano queste piagge, che ora per colpa altrui vanno in ruina. I miei con cittadini vi fanno questo invito per orrore, che hanno di questa guerra, e per compassione che sentono dello stato vostro. […] La superba Milano, che non vinse noi coll'aiuto di tante città, potrà forse la vittoria sperare adesso che ha soltanto in favore le armi vostre? 
Un naviglio assai potente sta qui sotto gli occhi, numerose squadre sono ancorate a Gravedona, a Torno, in Como. Il lago di Lugano fu riguadagnato, la Valtellina è in armi per noi, e la Valle Intelvi piena d'uomini coraggiosi ed armigeri, vi minaccia alle spalle. […] 
Non imiterete il generoso esempio di Gravedona, terra tanto principale?
[…] Che sperate voi contro le armi del prepotente alleato, che vi siete scelto? L'occasione di fuggire un male gravissimo ora vi si presenta. Como vi offre amicizia, obblio del passato, conferma degli antichi privilegi; nuovi ne aggiungerà secondo il bisogno. Scegliete adunque tra la vita e la morte».

Le parole dei messi non furono ascoltate, stimiamo pertanto che questa fu la risposta.

Voi siete venuti qui con quelle navi ben con altra intenzione, che di offrirci la pace. Ora che avete conosciuto a prova che il conquistarci colle armi è opera disperata, ci allettate colle dolci parole e colle ingannevoli speranze, per distruggerci poi che saremo nelle vostre mani caduti. È questa la mente vostra. 
Sieno pure, come ci opponete, superbi i Milanesi, noi questo ancor non sappiamo, ma della vostra avara e prepotente dominazione purtroppo abbiamo esperienza. […] credete che le terre del contado debbano tutte servire ai vostri comodi, fornirvi armi, uomini, vettovaglie, ed ubbidire a voi come al padrone, il servo […]  ma il vostro comune, perchè più popoloso, presume di dominare agli altri e dar leggi. […]  La nostra terra ha in sè quanto basta al proprio interno reggimento. Abbiamo armi e braccia per difenderci. L'asprezza di questi monti dà aiuto a noi. La Comacina è inespugnabile. Questa rocca, che per quattro lustri ha resistito a tutto il nerbo delle forze longobardiche, non teme il cozzo delle barche dei Comaschi. 

La rabbia della pace rifiutata accese l’animo dei comaschi che, rinvigorita la flotta, mossero all’attacco mettendo a ferro e fuoco l’Isola Comacina, Colonno, Mezzegra e Menaggio, dove espugnarono anche la torre campanaria, che dava rifugio a tutti gli abitanti. 
A Campo fecero un immenso bottino in vasi di oro e di argento, in gemme ed in ricchissime vesti.
Quindi si asserragliarono a Como, fortificando le difese in attesa di un contrattacco Milanese.
La strategia milanese però non contemplò l’attacco: si pensò invece di logorare Como con l’embargo, impedendo rifornimenti e vettovaglie sia da terra che dal lago.
L’esercito milanese si accampò nella pianura a sud, mentre le navi degli isolani e alleati presidiarono il lago a nord. I restanti monti rendevano difficili gli accessi da est e Ovest.
Per un certo tempo l’isolamento ebbe effetto, se non ché arrivò a Como la notizia di un cospicuo carico alimentare preparato dagli amici valtellinesi e consegnato alla Pieve di Gravedona pronto per essere imbarcato. I comaschi decisero di rischiare l’impresa inviando a Gravedona una flotta capeggiata dalla loro nave migliore, il Grifo.
La flotta arrivò tranquillamente a Gravedona, imbarcò il carico e fece ritorno riuscendo a forzare il blocco navale.

Dentro si aveva stretta di vettovaglie, ma una forte schiera di arditi gondolieri riuscì a recarsi a Gravedona, dove fornitasi di frumento e di grasce in abbondanza, e fugata una nemica squadra, che voleva chiudere il passo, si ricondusse in città a salvamento, e fu tolto il caro del vitto. 

Il 1125 vide un’imponente offensiva milanese, che insieme ai lecchesi costruirono trenta navi e mossero verso Como, unendosi a quelle degli Isolani.
Nel frattempo l’esercito milanese muoveva anche l’assedio da terra.
I comaschi, dal canto loro, allestirono 18 brigantini che, dopo aver ricevuto la benedizione del Vescovo Guido, si diressero dietro il promontorio di Torno in attesa del nemico.

L'armata dei ribelli già appariva da Torrigia avanzandosi attelata in bel l'ordine, e si assomigliava, secondo canta il poeta Cumano, a un folto bosco di alberi, che galleggiasse sulle acque; era piena di baldanza pei trionfi sperati, e le allegre voci della ciurma erano ripercosse dalle vicine valli. 
La zuffa era inevitabile, […] L'urto fu fierissimo; nave si avvicinò a nave, e quasi fossero in campo, soldato si opponeva a soldato. Il numero dava confidenza ai ribelli, la memoria delle passate sconfitte loro cresceva la rabbia; ma nei nostri operavano con maggior forza le antiche vittorie, e l'immagine della cara patria, che pericolava […] ed i nocchieri reggevano, la barca e pugnavano. Era soprattutto mirabile la maestria di questi nel vogare assecondando i soldati, barcheggiando, guizzando davanti al nemico, investendolo di forza.
[…] Le sorti traboccarono in nostro favore, e la flotta dei ribelli pesta e lacera andò guadagnando il largo. 

La valorosa flotta comasca fece in tempo a tornare a Como, sbarcare i soldati ed affrontare le truppe milanesi nel frattempo giunte entro le mura via terra. Si batterono eroicamente lasciando sul suolo oltre mille milanesi. Ancora una volta, gli assalitori si diedero velocemente alla fuga. Como era inespugnabile!

Ma le vittorie comasche vennero di presente da lagrime vole caso amareggiate per la morte del vescovo Guido. Questi sapeva comporre i moti dei cittadini, consigliarli, mantenerli uniti: morto lui non vi fu persona, che potesse acquistare l'autorità sua od imitarne l'ingegno; e le cose volsero di male in peggio fino all'eccidio della città. Il poeta Cumano con parole affettuose piange la morte di lui, ed afferma che mancato Guido, la vittoria abbandonò le mura di Como. 

Con la morte di Guido, la guerra cambia il suo corso. Per capire quanto il Vescovo fosse amato dalla sua città occorre un passo indietro.
Enrico IV, imperatore del Sacro Romano Impero, aveva nominato Vescovo di Como il nobile milanese Landolfo da Carcano, questo malgrado la ferma opposizione del popolo comasco che rivendicava per sé il diritto di eleggere il proprio vescovo. L’ostilità comasca arrivò al punto tale da negare a Landolfo l’ingresso alla città e costringerlo a rifugiarsi nei pressi di Lugano ed eleggendo Giudo Grimoldi a Vescovo di Como.
Ciò nonostante, protetto dall’imperatore, Landolfo usurpò numerose prerogative proprie della Chiesa Comasca, accaparrandosi alcuni diritti e comportandosi come legittimo titolare del vescovato.
Quando, nel 1118, l'imperatore tornò in Germania, i comaschi fecero arrestare Landolfo da Carcano ed uccisero due suoi nipoti, capitani milanesi. 
Questo episodio fu il casus belli che provocò lo scoppio della guerra dei dieci anni.
In realtà molti altri interessi, come spesso accade, giustificavano l’assedio Milanese. La via lariana rappresentava la porta ai ricchi commerci con il nord. Como, inoltre, è da sempre stata una terra fortemente legata allo stato pontificio, in forte contrapposizione in quegli anni con il potere imperiale che Milano promuoveva. 
Con la morte di Guido, nel 1127 la guerra volgerà alle sue fasi finali. 
I milanesi raddoppiarono gli sforzi, tornando ad assediare Como per terra e per acqua. Organizzarono una coalizione ancora più grande della lega precedente, chiedendo il supporto tecnologico anche di Pisa e Genova, esperti costruttori di macchine da guerra, come catapulte e macchine per sfondare le mura.
I pavesi costruirono le Scanciere o Ganzerre, velocissime navi a fondo piatto, rostrate, munite di cinquanta o più remi, con macchine per scagliar pietre e materiale incendiario. Portavano fino a seicento uomini.
Impressionante l’assedio raccontato dagli storici comaschi:

Deliberatisi i Milanesi di fare l'ultimo sforzo, raccolsero un fioritissimo esercito […] I terrazzani di Lecco abbattevano le selve per fabbricare ogni genere di macchine, e da Pisa e da Genova si chiamarono a bella posta gl' ingegneri militari per soprantendere ai lavori d'assedio […]. D'ogni parte si radunavano soldati, e per quanto sembrassero numerosi i già raccolti, altri ogni giorno loro sopravvenivano. 
Comparvero i vessilli di Pavia, di Novara, della Contessa di Biandrate, […] quindi i vessilli di Asti, 
di Albegna, di Alba, di Cremona, di Piacenza, di Parma, di Mantova, di Ferrara, di Bologna, di Modena, 
di Vicenza, e dei cavalieri della Garfagnana. […] 
Tutti i dintorni di Como erano occupati dai loro battaglioni; tenevano pure le alture dei monti, ed intorno al castello di Chiasso avevano posto un forte alloggiamento. L'armata dei ribelli lariensi e degli ausiliari di Lecco stringeva l'assedio dalla parte del lago. 
Gl'ingegneri genovesi fabbricarono quattro torri di grossa travatura, rivestita all'intorno di graticci coverti da pelli bovine, onde il fuoco lanciatovi dagli assediati non potesse appigliarvisi. Nel mezzo delle quattro torri collocarono due strumenti da percuotere le mura […] Costrussero inoltre quattro poderose balestre, onde gittare entro la città grossi macigni e saette con materia combustibile. […] 
Uomini, donne, fanciulli divisi a schiere, si posero chi a nettare le fosse, chi a afforzare le muraglie deboli, chi a distendervi sopra pelli di bue ed altre materie cedevoli, perchè il colpo delle macchine degli assedianti fosse ammorzato, chi a preparare armi. […] Investita e difesa Como in questa maniera, cominciò un assalto spaventevole. […] e furia si rendeva per furia. […]
Rinnovato nel dì vegnente l'assalto, e sfasciato un gran tratto di muro, ancora si resiste, ma si conosce che la città non potrà a lungo essere salva. Scendeva la notte, ed una tempesta incessante di sassi e di dardi infocati cadeva rendendo mal sicuro e lo starsi in casa, e l'uscire nelle aperte contrade. 
Il volgo delle donne e dei fanciulli si aggirava in diverse parti spaventati, e lamentava pietosamente la sorte della patria pericolante. Si stabilisce di abbandonare la città, rifuggirsi nella fortezza di Vico.

L’assedio non lasciò scampo, si decise di abbandonare la città, imbarcarsi sulle navi e raggiungere il vicino forte di Vico, la cui fortunata posizione lo rendeva difficilmente espugnabile con le grandi macchine da guerra milanesi. 
Se, da una parte, l’assedio di Vico era praticamente impossibile, d’altro canto i Comaschi ivi rifugiati avrebbero presto subito la fame di un sicuro embargo. 
I milanesi mandarono il loro arcivescovo Anselmo e una delegazione di Abati a trattare la resa.
I comaschi accettarono, a patto che fossero garantire “salve le vite, le sostanze e le abitazioni, non si avessero a distruggere che le torri e le mura della città, quelle di Vico e di Coloniola.”
I milanesi accettarono le richieste comasche e si siglò l’accordo in due pergamene, alle quali apposero in nome con giuramento, gli Optimates delle due parti. Ma, una volta posate le armi, successe il peggio.

Posate le armi subito si diede mano al disfacimento delle mura, ed all'atterramento delle torri. Poi calpestando essi la santità del giuramento, appiccarono il fuoco alle case, e città e borghi furono presto un mucchio di cenere e di ruine. Ciò, che la fiamma non giungeva a distruggere, con martelli e con zappe si abbatteva; i monumenti dell'epoca dei Romani si diroccavano, ed il maglio spezza va le lapidi, gli archi, i bassi rilievi, le preziose colonne, che ricordavano il prisco valore. 
Le sole chiese furono risparmiate. I contadini e gli uomini del volgo furono tratti in ischiavitù; le sostanze dei nobili si rubarono; e per soprassoma dei mali, non mancarono gl'insulti. 
Vietossi rigorosamente di rifare le smantellate mura, e le ruinate abitazioni; non si concesse ai traditi Comaschi, che di piantare alcune povere capanne coverte di paglia e di assicelle qua e là nei dintorni del piano, in cui sorgeva la città, non più regina del Lario.
Tutte le capanne insieme non si potevano edificare, poichè generava sospetto, e i cittadini furono, secondo pare, distribuiti in quattro borgate. S'impose loro un annuo tributo; e per togliere affatto il commercio e rendere disabitato il sito, si proibirono i soliti mercati (I 1). 
I nostri fremevano disarmati sulla fede dei trattati, ed al mirare la patria con tanta rabbia distrutta dal baldanzoso nemico, non sapevano contenere le lagrime. 
Como fu in tal guisa disfatta a 27 di agosto l'anno 1127.


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